Pubblicato il: 01/11/2022
Il caso in esame nasce dal comportamento tenuto da un difensore che all’interno di un procedimento penale non partecipa ad alcune udienze, facendo mancare al proprio assistito la difesa tecnica necessaria per poter essere scagionato. Nello specifico, l’avvocato è assente all’udienza dibattimentale di discussione, violando l’art. 26, comma 3 del Codice Deontologico.
Lo stesso, inoltre, è accusato di aver fatto scadere i termini previsti per l’impugnazione della sentenza, ex articolo 12 del Codice Disciplinare. Nello specifico l’incolpato ha tenuto un comportamento gravemente negligente nel corso del suo mandato.
Il ricorrente contesta che al momento dell’incolpazione, alcuni dei capi proposti nei suoi confronti erano già prescritti essendo decorso il termini di sei anni o comunque quello massimo per la più grave violazione. In ogni caso, le violazioni contestate costituiscono un illecito di natura istantanea che si è consumato al momento della mancata presentazione alle udienze o, la mancata presentazione dei motivi di appello avverso le sentenze emesse nei confronti dell’esponente.
Secondo il Collegio, la mancanza di un legittimo impedimento che giustifichi l’assenza dell’avvocato all’udienza e la mancata nomina di un difensore che sostituisca quello assente, costituisce un illecito deontologico. Inoltre, non rileva ai fini dell’incolpazione l’assenza di conseguenze negative nei confronti dell’assistito e neppure l’eventuale presenza di vantaggi per lo stesso. Ciò finirebbe per privare il comportamento del professionista dell’intrinseco disvalore connotato dalla negligenza tenuta. L’illecito pertanto, ha natura istantanea e non permanente.
Pertanto, nonostante il Collegio abbia parzialmente accolto l’impugnazione poiché alcuni degli illeciti contestati sono caduti in prescrizione essendo trascorsi sei anni dagli stessi, ciò non può determinare una riduzione della pena. La stessa infatti non viene determinata attraverso mero computo matematico né in base ai principi codicistici in tema di concorso di reati, ma in ragione dell’entità della lesione dei canoni deontologici e dell’immagine dell’avvocatura alla luce dei fatti complessivamente valutati. Pertanto, non vi è alcuna violazione del divieto di reformatio in peius nonostante sia venuta meno una contestazione.