Pubblicato il: 19/09/2024

Generalmente, quando un dipendente in malattia viene scoperto a svolgere attività estranee alla sua condizione e non finalizzate al recupero del proprio stato di salute, la conseguenza immediata e più naturale di tale condotta sembra essere quella del licenziamento per giusta causa, con la possibile conferma del giudice.
Si pensi, ad esempio, alla recente vicenda che ha coinvolto l'azienda di trasporti regionali Eav, che gestisce i treni della Circumvesuviana. In questo caso, la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento di un dipendente che, assente dal luogo di lavoro per malattia, era stato visto uscire di casa per motivi personali e addirittura sorpreso a giocare a calcio.

Ebbene, una recente ordinanza della Cassazione del 4 settembre, la n. 23747, ha dimostrato che in realtà, in questi casi, la decisione giudiziale non è sempre così prevedibile o scontata.
Prima di analizzare nel dettaglio la vicenda, è opportuno soffermarsi brevemente sullo stato di malattia. Si tratta di una delle circostanze protette che comportano la sospensione delle prestazioni lavorative. In base alla legge e ai contratti collettivi, un lavoratore malato, che si assenta dal luogo di lavoro, ha diritto a mantenere il posto e a percepire una retribuzione o un'indennità economica.
Tuttavia, sul lavoratore gravano una serie di obblighi, tra cui quello di informare il datore di lavoro del proprio stato di salute, fornire idonea certificazione medica attestante lo stato di malattia, nonché rispettare le fasce orarie di reperibilità per le visite fiscali.

Nel caso oggetto dell’ordinanza della Suprema Corte, un dipendente era stato licenziato perché, durante il periodo di malattia, era stato ripreso da una telecamera mentre svolgeva attività lavorativa nel bar di sua proprietà. L'azienda aveva motivato il licenziamento sostenendo che il lavoratore, per compiere le attività tipiche di chi lavora in un bar, aveva utilizzato la mano infortunata, rischiando così di aggravare la sua condizione di salute e rallentare il processo di guarigione.
Pertanto, l’azienda procedeva a licenziare il dipendente per motivi disciplinari e la controversia veniva portata in tribunale.
Sia il giudice di primo grado che il giudice di appello si erano pronunciati dichiarando l’illegittimità del licenziamento. In particolare, i giudici sostenevano l’insussistenza del fatto contestato al lavoratore e che le attività svolte non avevano alcun impatto sul recupero del suo stato di salute o sul ritorno al lavoro.
Di conseguenza, il recesso unilaterale dell’azienda era infondato e il lavoratore aveva diritto ad una tutela reintegratoria e risarcitoria.

Dinanzi a tali pronunce, il datore di lavoro presentava ricorso in Cassazione. Tuttavia, con l'ordinanza n. 23747, la Corte ha confermato le decisioni dei giudici di merito, sottolineando che è compito dell’azienda dimostrare circostanze oggettive e soggettive che giustifichino il licenziamento per violazione degli obblighi di diligenza e buona fede.
In questo caso, però, secondo la Cassazione, dalle immagini di videosorveglianza si evince che le attività svolte dal dipendente presso il bar non configurano alcuna illiceità ed inoltre si è trattato di attività insignificanti, tra l’altro compiute a distanza di circa sette mesi dall’infortunio e a pochi giorni dal termine del periodo di malattia.
Infatti, dall’istruttoria compiuta è emerso che il lavoratore aveva eseguito, con la mano infortunata, solo compiti leggeri per nove giorni consecutivi, come ad esempio fare telefonate o scrivere messaggi. Solo in alcune occasioni aveva compiuto attività più impegnative, come aprire e chiudere la porta o spostare sedie e tavoli.

Questo orientamento non è nuovo. Già in passato la Corte di Cassazione aveva stabilito, con la sentenza n. 21667 del 2017, che lavorare durante la malattia può giustificare il licenziamento solo se l’attività in questione compromette la guarigione o ritarda il rientro al lavoro.
Ulteriore conferma di tale orientamento si rinviene nella sentenza n. 16465 del 2015, in cui i giudici di legittimità hanno affermato che lo svolgimento di un'attività durante la malattia costituisce un illecito disciplinare non solo quando impedisce effettivamente il ritorno al lavoro, ma anche quando mette a rischio la guarigione.


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