Pubblicato il: 31/10/2024
Si può essere licenziato per essere stato sgarbato e maleducato nei confronti di un cliente?
La vicenda sottoposta all'attenzione dalla Cassazione riguarda un lavoratore, addetto al banco macelleria di un supermercato. L’uomo veniva licenziato per giusta causa per aver aggredito verbalmente un cliente anziano con espressioni sgarbate e scurrili.
Nel caso in esame, la Corte d’Appello di Cagliari ha ritenuto integrata la previsione dell’art. 215 CCNL dipendenti del Terziario, della Distribuzione e dei Servizi. Questa norma stabilisce che le gravi violazioni degli obblighi posti dall’art. 210 del CCNL – tra cui c’è proprio quello di utilizzare modi cortesi con i clienti e di tenere una condotta conforme ai doveri civici – vengano sanzionate con il licenziamento.
A fronte di tale pronuncia, il lavoratore ha proposto ricorso alla Corte di Cassazione.
Dunque, il comportamento del dipendente, che offende un cliente, può essere motivo che giustifica il licenziamento?
Il licenziamento per giusta causa è un licenziamento immediato e senza preavviso che, ai sensi dell’art. 2119 del c.c., può essere effettuato dal datore di lavoro quando il dipendente realizza un comportamento tanto grave da impedire la prosecuzione del rapporto lavorativo, anche solo in via temporanea.
Dunque, anche se il condizionale è sempre d’obbligo, il licenziamento potrebbe essere considerato eccessivo nelle ipotesi in cui l’offesa ad un cliente sia un episodio isolato. Tuttavia, le cose cambiano se il dipendente è stato sanzionato più volte per condotte inopportune durante l’esercizio delle sue mansioni lavorative.
D’altronde, la Corte d’Appello ha sostenuto come la condotta del dipendente fosse tanto grave da danneggiare la fiducia nel rapporto lavorativo e giustificare il licenziamento. Ciò anche alla luce dei precedenti disciplinari infrabiennali a carico del lavoratore, che rivelavano un “reiterato disprezzo delle regole che rendeva non più proseguibile il rapporto di lavoro”.
Però, cosa ha detto la Cassazione sull’argomento? C’è il pericolo di essere licenziato se si offende un cliente?
Con la pronuncia in esame, la Suprema Corte ha approfittato per ribadire alcuni principi fondamentali in materia di licenziamento per giusta causa.
La Cassazione ha posto in evidenza che la giusta causa di licenziamento deve essere intesa come quel fatto che non permette la prosecuzione, nemmeno provvisoria, del rapporto di lavoro.
Nello specifico, la “giusta causa” rientra tra le cc.dd. clausole generali e deve essere interpretata, di volta in volta, dal giudice: ossia, il giudice deve specificare ed integrare il contenuto di tale clausola, tenendo conto sia della coscienza generale, sia dei principi giuridici richiamati tacitamente dalle norme.
Secondo la Suprema Corte, l’attività di integrazione compiuta dal giudice di merito nell’applicazione delle clausole generali (come quella dell’art. 2119 del c.c.) può essere sottoposta a controllo in sede di giudizio di legittimità, ma questo controllo deve essere delimitato esclusivamente al profilo della correttezza del metodo che è stato seguito nell’individuazione e nell’applicazione dei criteri e principi desumibili dall’ordinamento generale (a partire dai principi costituzionali e dalla disciplina, anche collettiva, in cui il caso concreto si colloca).
Tuttavia, la Cassazione ha sottolineato anche che, nel caso dell’art. 2119 c.c., l’operato del giudice di merito è sindacabile nel giudizio di legittimità solo ad una condizione: è necessario che sia stata denunciata la “non coerenza” del giudizio valutativo realizzato in sede di merito rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale.
Al contrario, nella vicenda oggetto del nostro esame, il lavoratore si è limitato a contestare in modo generico il giudizio del giudice di merito, senza indicare gli aspetti della clausola generale che sarebbero stati violati.
Ecco perché, in questo caso, il ricorso del dipendente è stato dichiarato inammissibile e, quindi, il licenziamento per giusta causa è stato confermato, con la condanna del lavoratore al pagamento delle spese legali.
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