Pubblicato il: 22/10/2024

Con l’ordinanza 27 settembre 2024, n. 25840, la Cassazione ha confermato la decisione assunta dalla Corte di Appello di Napoli, secondo cui il ticket mensa costituisce a pieno titolo una componente della retribuzione e, in quanto tale, dev’essere garantito anche durante le ferie.

L’orientamento è, peraltro, in linea con una precedente pronuncia della Corte di Giustizia Europea (CGUE). Quest’ultima ha stabilito, infatti, che la retribuzione percepita durante le ferie deve essere equivalente a quella dei giorni lavorativi ordinari, per evitare che il lavoratore sia dissuaso dal godere delle ferie stesse (cfr. CGUE 20 gennaio 2009 C-350/06 e C-520/06).

La disciplina relativa ai buoni pasto – sembra utile ricordare – è contemplata dal regolamento del Ministero dello Sviluppo economico n. 122 del 7 giugno 2017. La normativa richiamata definisce il buono pasto come "un servizio sostitutivo di mensa di importo pari al valore facciale del buono" e utilizzabile "esclusivamente dai prestatori di lavoro subordinato, a tempo pieno o parziale, anche qualora l’orario di lavoro non preveda una pausa per il pasto, nonché dai soggetti che hanno instaurato con il cliente un rapporto di collaborazione anche non subordinato".

La normativa deve, inoltre, essere letta congiuntamente con gli accordi derivanti dalla contrattazione collettiva nazionale che, generalmente, disciplinano l’erogazione dei buoni pasto nel proprio settore di riferimento.

Il fine dei buoni pasto è quello di garantire il benessere fisico necessario per la prosecuzione dell’attività lavorativa al lavoratore, obbligato a rendere la prestazione in un orario comprensivo della fisiologica pausa pranzo e in un luogo diverso dalla sede in cui viene svolto il lavoro.

Secondo costante orientamento della giurisprudenza, il buono pasto non ha natura retributiva e non rappresenta un beneficio che viene attribuito di per sé, ma è finalizzato a consentire al dipendente, laddove non sia previsto un servizio mensa, un beneficio conseguente alle modalità concrete di organizzazione dell’orario di lavoro (cfr. Cass., sent. n. 14388/2016).

Sino ad oggi, dunque, i giudici hanno attribuito ai buoni pasto un carattere assistenziale, volto a garantire una "finalità conciliativa tra le esigenze dell’organizzazione del lavoro con le esigenze quotidiane del lavoratore".

La medesima Corte di Cassazione, nell’ordinanza n. 16135 del 28 luglio 2020, ha addirittura attribuito alla corresponsione del buono pasto "una unilaterale revocabilità da parte del datore di lavoro", in tutti quei casi in cui non si ravvisino più le condizioni di agevolazione nell’ambiente lavorativo, che sono il presupposto per l’erogazione del servizio.

Data questa premessa, il diritto automatico ai buoni pasto viene meno in queste situazioni:

  • domeniche non lavorative e giornate festive non lavorate;
  • permessi di lavoro di una giornata intera;
  • permessi per la Legge 104 di una giornata intera;
  • periodi di aspettativa;
  • congedi per maternità facoltativa;
  • congedi per malattia e infortunio;
  • giornate di sciopero;
  • permessi sindacali;
  • giorni di ferie.

Il quadro sinora esposto è destinato, quindi, a cambiare alla luce della nuova pronuncia della Suprema Corte. La retribuzione dovuta per il periodo di godimento delle ferie deve comprendere – affermano ora i giudici – qualsiasi importo economico previsto nella ordinaria esecuzione delle mansioni come indennità varie, ivi compresi i buoni pasto.

Il motivo? “Una retribuzione inferiore e quindi disincentivante durante le ferie, spingerebbe i lavoratori a rinunciare al periodo feriale con conseguente abbassamento dei livelli di salute e sicurezza”.


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